Paolo Greppi
Paolo Greppi
Paolo Greppi è nato a Brescia nel 1966. Dopo il liceo scientifico si è iscritto al Politecnico di Milano, Facoltà di Architettura, che ha frequentato fino al 1990. Dal 1991 al 1993, prima con una borsa di studio Erasmus, e poi autonomamente, ha vissuto ad Oporto, frequentando lo studio di Álvaro Siza. Si è laureato in architettura al Politecnico di Milano nel 1993, con una tesi svolta presso la FAUP (Faculdade de Arquitectura da Universidade do Porto) con relatori Álvaro Siza e Pierluigi Nicolin dal titolo ”Brescia: nuova definizione per un’area industriale dismessa (ex Atb – Comparto Milano): progetti per abitazioni, servizi, parco urbano e Istituto Universitario (Facoltà di architettura con biblioteca, sale espositive ed auditorium)”.
Dal 1993 esercita la professione di architetto fondando, a Brescia, nel 1993 Greppi & Bianchetti studio e nel 2010 [paologreppiarchitetti].
Si occupa di concorsi, edifici pubblici, musei e spazi espositivi, scuole, social housing, residenze singole, residenze sanitarie assistenziali, impianti sportivi, spazi aperti, edifici per uffici, centri cottura, edifici sacri ed adeguamenti liturgici, restauro e recupero dell’esistente, allestimenti.
Il suo lavoro è stato oggetto di esposizioni alla Biennale di Architettura di Venezia, nel 2010, al Museo della Faculdade de Arquitectura da Universidade do Porto nel 2005, al Museum of Architecture and Design (MAO) di Lubiana nel 2013 ed in altre sedi (Milano, Roma, Torino, Napoli, Verona, Parma, Monselice, Brescia).
Suoi progetti sono stati oggetto di pubblicazioni in varie riviste e cataloghi di architettura e nella monografia “Greppi e Bianchetti. Discorsi dai luoghi”.
Su Paolo Greppi hanno scritto: Giovanni Leoni, Luca Molinari, Marco Mulazzani, Giovanna Borasi, Luca Maria Francesco Fabris, Laura Peretti.
Ha tenuto lezioni e conferenze presso il Politecnico di Milano, Campus Leonardo e Campus Bovisa ed altre sedi (Milano, Napoli, Bolzano, Piacenza, Brescia).
E’ stato visiting professor e corelatore di varie tesi di laurea in diversi corsi universitari.
E’ stato inoltre Membro del comitato scientifico della collana Architetti italiani contemporanei, edita da Idea Architecture Books, Schio, Vicenza.
Suoi scritti sono stati pubblicati in varie riviste o cataloghi di architettura.
Paolo Greppi, dal 2020 si occupa anche di fotografia.
In alcuni frangenti, si ritrova, in maniera più o meno chiara, l'antica passione per la scultura, autonoma nei risultati in alcuni casi, in altri sovrapposta all'architettura. Emerge anche, nei momenti in cui pare vicina la rinuncia all'Architettura, l'avvicinamento ad altre possibilità espressive, oltre la fotografia, quali lo scrivere, su argomenti diversi, come la poesia, il cinema e l’alchimia. Di seguito, alcuni casi.
A trasformare un’abitazione in casa ci pensa la vita; solo la vita? O possiamo supporre di individuare alcune qualità, incontrollabili credo, che risiedono negli edifici e che sono in grado di creare una sorta di campo psichico che predisponga all’abitare? Questo lavoro cerca di dare risposta a tale interrogativo. Difficile nel farsi, senza contesto, indaga alcune emozioni dell’abitare-essere (gravità - inconsistenza, vuoto - massa, calore – algore, oscuro – conosciuto), che solo eccezionalmente un progetto riesce a controllare e che qui si contestualizzano in un oggetto celibe, un processo interrotto che non incontra un contesto reale. Non un progetto, quindi. Né architettura, né scultura. Un tentativo di indagine interiore su un istante che ognuno vive quotidianamente. Che, per noi progettisti, sotto forma di memoria inconsapevole, prelude al progetto e che, per ognuno, sta, poi, dopo la costruzione, nell’abitare, sfondo di una felicità possibile. Per poi ritornare intermittente, per noi, nelle intenzioni di un altro progetto. Per scomparire nuovamente, sempre più sfuggente, nei disegni esecutivi o nei cantieri…
Materiali: Acciaio C40, noce nazionale, feltro industriale, granito Nero assoluto, viti in acciaio.Dimensioni cm 12x50x50, peso kg 50.Paolo Greppi, Brescia, 16.03.2000
Pendere, pesare, pensare
L’ossario comune, nel cimitero capoluogo di Palazzolo sull’Oglio è costituito da una piramide cava, rivestita all’esterno di fogli di piombo. L’edificio, alto nove metri, diventa monumento che coglie la scala territoriale essendo visibile anche da grande distanza conferendo al camposanto l’eloquenza che un cimitero, quale edificio civile tra più rappresentativi, merita.
Gli accessi sono due: uno attraverso una scala porta nello spazio ribassato dove si accede alla botola per depositare i resti; l’altro, permette l’affaccio attraverso un tunnel in acciaio corten ossidato, dal portico verso il basso. Lo sguardo del visitatore che si avvicina al cancello apparentemente socchiuso, in realtà fisso in questa posizione, incontra l’installazione interna costituita da un tubolare tondo in acciaio corten, posto orizzontalmente nella parte alta della piramide, ed un tubo quadrato sempre in lamiera di acciaio corten, posto verticalmente e leggermente inclinato, come se stesse oscillando. I due elementi, saldati tra di loro, formano una croce asimmetrica, che comunica un senso di instabilità e riporta nella parte bassa dell’asta verticale un testo.
Pendere, pesare, pensare, termini con la stessa radice etimologica, conducono, nel momento del dolore collettivo, ad una sommessa riflessione.
Paolo Greppi, Brescia, 2012
Provvisorietà/Sguardo
Quando incontro due individui che collaborano, aiutandosi e sostenendosi a vicenda, torna in me la speranza. In portoghese, la mia seconda lingua, aspettare e sperare sono una parola sola: esperar. Per molti motivi adoro la lingua portoghese; questo è uno di quelli, perché "sperare" mi dà un senso di impotenza, come dire: lasciamo al caso o al soprannaturale, la decisione; mentre "aspettare", comunica un senso di maggiore certezza. L'attesa sarà seguita dal risultato, solo differito. L'attesa, quindi, del risveglio di una società attualmente paralizzata da paura e odio.
Nel caso della fotografia gli individui sono un'alga e un fungo. Convivono. Ma senza l'altro non ce la farebbero: l'alga riceve riparo, acqua e sali dal fungo, che, al contempo riceve dall'alga i composti organici prodotti dalla fotosintesi. La natura ha detto già tutto, sarebbe sufficiente ascoltare. Il connubbio prende il nome di lichene, dalla radice greca antica λείχω (leicho), cioè "lambisco", per la sua struttura che pare accarezzare la superficie sulla quale trova dimora. I licheni sono preziosi, in antichità diedero sostentamento in mancanza di cereali, nei periodi di carestia. Oggi sono utilizzati in cosmetica, in farmaceutica e come coloranti nell'industria tessile.
Credo che la grazia, sia metaforica che formale, di questi organismi, sia stata il motivo che ha sedotto uno tra i più rinomati studiosi internazionali di licheni, che scrisse:
"Capisco, adesso, perché questa passione ha attecchito in me così durevolmente: rispondeva a ciò che ho di più vivo, il senso della provvisorietà. Sicché, per buona parte della vita, avrei raccolto, dato nome, amorosamente messo in serbo....neppure delle nuvole o delle bolle di sapone - che per un poeta sarebbe già bello; ma qualcosa di più inconsistente ancora: delle effervescenze, appunto."
L'autore ebbe anche un'altra vocazione, per la quale, in Italia, fu più celebre: la poesia. Non a caso. Si chiamava Camillo Sbarbaro.
Ed è una voce tra le mie preferite.
L'incipit di "Ora che sei venuta", suona così:
"Ora che sei venuta,che con passo di danza sei entratanella mia vitaquasi folata in una stanza chiusa -a festeggiarti, bene tanto atteso,le parole mi mancano e la vocee tacerti vicino già mi basta."da "Rimanenze", 1955Viene naturale ora, dopo che il caso, attraverso una fotografia, ci ha condotto alla poesia, trasformare l'inconsistente, ma proprio perché fragile, feconda effervescenza che il poeta custodisce, in un modo per riconoscere nel volto dell'altro, lo sguardo. Sguardo che poi, in fondo, è il nostro.
I poeti insegnano.
Paolo Greppi 24.11.2021
Brescia, Cellatica, Santuario della Madonna della Stella
1537-1539
Krzysztof Kieślowski/Agostino Ghilardi
La scultura martoriata di Agostino Ghilardi mi ha portato al dolore della guerra che si sta consumando in questi tristissimi giorni. A pochi chilometri dai luoghi di tale violenza, nel 1941 nacque, a Varsavia, un grande regista: Krzysztof Kieślowski.
Oggi ricorre il ventiseiesimo anniversario della sua morte.
Ho amato ed amo tutti i suoi film.
I motivi sono molti, sarebbe troppo lungo elencarli. Uno, in particolar modo però, affiora alla mia memoria in questi momenti, e proviene dalle dieci pellicole del "Decalogo": la capacità di mettere lo spettatore di fronte a questioni etiche capitali dove la scelta da compiere è difficilissima e di condurre lo sviluppo temporale del film in modo da mettere chi lo segue, di fronte al dilemma, come se la decisione fosse sua. Non solo: la maestria della sceneggiatura, oltre a quella della regia, riescono a smontare le certezze dello spettatore, mettendolo spesso di fronte ad una inconfutabile verità, opposta alla propria visione della realtà. Così come il giudice Joseph Kern, interpretato da Jean-Louis Trintignant, nel film "Tre colori - Film rosso", confessa: “E questo vale per tutti coloro che ho giudicato: nella stessa vita, in quelle circostanze, avrei rubato, avrei ucciso, avrei mentito. Sicuro. Ho condannato perché non ero nella loro pelle, ma nella mia.”
Parole che risuonano nelle sorti dell'umanità, come nel dramma che stiamo vivendo.
Paolo Greppi 16.03.2022
Alchimia, ingressi
Spesso, quando chiudo gli occhi e sto per addormentarmi, percepisco immagini molto chiare ed altrettanto fuggevoli, che posso distinguere solo in quei momenti e per poche frazioni di secondo. Un fatto simile accade quando i miei occhi, mentre fissano un’immagine e la vedono con precisione, riescono, nella visione periferica, con la “coda dell’occhio” a cogliere presenze sfuggenti. Descrivere la qualità delle visioni, sia nel primo che nel secondo caso, non è semplice. Questo è il punto: sia le immagini che ci giungono dall’interno, che quelle provenienti dall’esterno, hanno un carattere indefinibile, quasi inafferrabile, che credo sia proprio ciò che le rende affascinanti. Sono simili alle immagini dei sogni. Il fatto però che sia possibile per noi giungere a queste visioni con un atto parzialmente volontario, al contrario di ciò che accade nei sogni, ci offre una porta d’accesso alle forze archetipiche e ci permette di avvicinarci a ciò a cui aneliamo nell’operare: attingere alla purezza nella profondità dell’inconscio, lontani dai condizionamenti culturali. L’immersione nel colore e nella materia nell’elaborazione dei progetti recenti, mi ha permesso qualcosa di simile: l’accesso ad un diverso modo di procedere, libero dai vincoli dell’abitudine, dal linguaggio consueto, dalla prigione della razionalità. Mi ha permesso un modus operandi fenomenologico. L’antica massima greca: “salvare i fenomeni”, come ricordava lo psicologo e filosofo James Hillman, significa viverli e non tradurli per non inaridirli. Significa essere aperti attraverso i sensi agli stati dell’anima.
Ricordo una poesia di Fernando Pessoa, che descrive con precisione questi avvenimenti:
Paolo Greppi, Brescia, 2022