Paolo Greppi

Sentire l'architettura: l'irrazionale come anima del razionale

L'esempio della piscina delle maree di Álvaro Siza

 

Mi è sempre parso insufficiente e quasi fuorviante il termine "razionale" o "razionalista" per definire l'architettura di quell'epoca che poi si è evoluta mantenendo parte dei suoi contenuti, fino ad oggi, trasmettendo emozioni intense e non facilmente razionalizzabili. Quindi mi piacerebbe parlare anche di quanto di "irrazionale" si trovasse, ed oggi continua a trovarsi in quel modo di fare architettura. L'architettura, per estensione e presenza fisica sulla terra, è il linguaggio umano più diffuso, al quale nessuno si può sottrarre. Viene però pensata, osservata e vissuta troppo spesso, sia dall'interno che dall'esterno della disciplina, esclusivamente attraverso la logica. Al contrario, per consentirne una visione più sentita ed emotiva e per non smarrirne quindi gli aspetti di maggior profondità, le forze segrete che la animano mi pare più appropriato avvicinarvisi attraverso le parole dei poeti e dei filosofi. Essi ci aiuteranno ad abbandonare il predominio della razionalità.

Paul Valéry, nel 1921, nel dialogo in forma platonica Eupalino, o dell'architettura, fa esprimere a Socrate un concetto che ci conduce senza esitazione al cuore della questione:

Socrate: “O Fedro, non puoi non aver notato nei discorsi più importanti [che] gli argomenti più gravi e le dimostrazioni meglio condotte sortivano ben scarso effetto senza il soccorso di particolari all'apparenza insignificanti. Questi legami sono sulla soglia dello spirito e gli ripetono ciò che ad essi piace e glielo ridicono sino a fargli credere d'udire la propria voce. La sostanza d'un discorso è tutta, insomma, nel canto e nel colore d'una voce, che a torto consideriamo come particolari ed accidentali.”

Il "canto e il colore d'una voce" che quasi cinquant'anni prima, nel 1873, Nietzsche, in “Su verità e menzogna in senso extramorale”, definiva così: “Ciò che nel linguaggio meglio si comprende non è la parola, bensì il tono, l'intensità, la modulazione, il ritmo con cui una serie di parole vengono pronunciate - insomma la musica che sta dietro alle parole, la passione dietro questa musica, la personalità dietro a questa passione: quindi tutto quanto non può essere scritto.”

Nell’eco dei testi citati ci apprestiamo ora a vivere un luogo, esso stesso solo inadeguatamente descrivibile nello spazio limitato della pagino bianca, anche se con l'ausilio di immagini. La Piscina delle maree si trova a Leça da Palmeira, nei pressi di Oporto ed è stata realizzata su progetto di Álvaro Siza tra il 1959 ed il 1973. L'architetto iniziò il progetto all’età di ventisei anni. Eleggiamo questa deposizione di elementi (definirla "edificio" sarebbe impreciso), a simbolo e momento decisivo dell'arte del costruire del secolo scorso, poiché, come un punto fermo, raccoglie in sé i principi dell'architettura degli anni Trenta e anticipa quelli a noi contemporanei. Il programma è semplice e geniale al contempo: predisporre un sito, sulla costa atlantica, per accogliere vasche colme d'acqua oceanica che, in virtù della loro misurata profondità, permettano al liquido di riscaldarsi naturalmente con calore del sole e consentano di fare il bagno, cosa altrimenti quasi impossibile nell'oceano, date le temperature non confortevoli.

La sinuosità aspra di un sito sfuggente e quasi impossibile da tenere sotto controllo viene "ascoltata" e, con pochi segni, predisposta alla vita che è destinata ad accogliere.

Ci troviamo di fronte a una serie di piani verticali, orizzontali e leggermente obliqui che risolvono la differenza di quota tra la strada e gli scogli di granito sull'oceano, più in basso. Sentiamo la linea dell'orizzonte, guidati dai piani di copertura in lastre di rame inverdito dalla salsedine; piani lievemente inclinati, quasi fossero sensibili alle carezze del vento. Scendiamo attraverso una rampa. La vista dell'oceano ci abbandona e, pian piano, anche la luce atlantica diminuisce. Il cemento bianco-liscio del pavimento lascia il posto al legno venato dipinto di nero delle ante degli spogliatoi.

Giriamo a sinistra. Entriamo. Il cielo scompare. Lo spazio si comprime, diviene ctonio e silenzioso. Cambiamo gli abiti. Usciamo dagli spogliatoi, verso l'oceano. La luce incide nuovamente le superfici. Chirurgica. Il calcestruzzo dei muri che delimitano lo spazio di soglia nel quale ci troviamo è del medesimo colore del granito degli scogli. Ma di fronte a noi troviamo un muro, dietro al quale immaginiamo, e cominciamo a udire, l'oceano. Svoltiamo nuovamente a sinistra. Camminiamo fra due muri. Poi sulla destra, un varco. Si apre la vista sulle vasche, gli scogli, l'oceano. Si sente la salsedine.

La pavimentazione non è più bianco-liscio, ma in cemento più scabro, colore della sabbia. In breve, i nostri piedi appoggiano sul granito. I piani in cemento scompaiono per riapparire solo a tratti, solo se necessari, tra la sabbia e gli scogli. A volte si trasformano in scale. Sulla destra, un muro, ancora del colore della sabbia e del granito, in diagonale, si dirige verso l'oceano, mentre cinge e protegge dai venti uno spazio pavimentato dove potersi sedere. I due bacini di fronte all'infinito che ha dato forma ad un sentimento, legato principalmente a questo paese: la saudade, sono quasi completamente contenuti dagli scogli esistenti; solo pochi brani di muratura ne completano la forma. Qui siamo ormai quasi solo nella natura. Ci voltiamo per guardare alle nostre spalle e vedere l'unica facciata architettonica del complesso che è possibile leggere da una certa distanza. Lunghissima e bassa, sfilata, distesa tra la sabbia ed il granito e quasi intenta a dissimulare la memoria, scritta in sé stessa, delle opere dei maestri del Movimento Moderno: Ludwig Mies van der Rohe, Alvar Aalto e Frank Lloyd Wright. Che, anche noi, dimentichiamo presto, perché in realtà qui avviene qualcosa di molto diverso: la scarnificazione lessicale è tale che ci conduce veramente ad un'assenza dell'idioma, al linguaggio naturale, alla rivelazione sensoriale degli archetipi spaziali. Qui l'architettura riesce ad essere, ma anche a non essere. È come se trovasse nello spazio libero tra il granito, la sabbia, l'acqua ed il cielo, gli spazi di minima resistenza in cui riuscire a scaturire.

Per trasmettere le emozioni che il luogo ha suscitato in noi serve però il mestiere, la logica che guida la Mano dell'architetto nel disegno, che lo fa parlare per ordini e numeri, come Valéry eloquentemente ci rivela nel seguente brano, sempre tratto da Eupalino, o Dell'architettura:

“Fedro: […] Ma ben povera cosa erano gli scrupoli prescritti perché l'edifizio durasse, a paragone di quelli usati per elaborare le emozioni e le vibrazioni d'anima del futuro contemplatore dell'opera sua. Preparava alla luce uno strumento incomparabile che, nello spazio ove si muovono i mortali, la spandesse in forme intellegibili, con proprietà quasi musicali; e conosceva, o Socrate, come gli oratori ed i poeti cui pensavi poco fa, la virtù misteriosa delle modulazioni impercettibili. Innanzi ad una massa di cosi morbida leggerezza e di sì semplice apparenza, nessuno s'accorgeva d'essere condotto ad una specie di felicità per curve insensibili, per infime e sovraumane inflessioni, per le profonde combinazioni del regolare e dell'irregolare da lui stesso introdotte, nascoste e rese tanto superbe da non potersi definire. In virtù di esse, lo spettatore, mobile e docile alla loro presenza invisibile, passava di visione in visione, da silenzi vasti al sussurro del piacere come procedeva, indietreggiava, si accostava di nuovo, errando tutt'intorno all'opera, da questa mosso e in balia dell'ammirazione. Bisogna diceva l'uomo di Mègara, che il mio tempio muova gli uomini come li muove l'oggetto amato.”

Si potrebbe forse concludere, senza peraltro voler essere definitivi, questo esame sulla razionalità e il suo opposto in architettura con la seguente riflessione: l'irrazionale, il confuso, che forse non appartiene nemmeno all'architetto, ma a forze archetipiche da tempo immemore scritte nell'inconscio e di cui l'architetto si fa umile interprete, sale alla ragione nel momento del progetto, per poi restarvi nella prima percezione di chi abita e subito tornare irrazionale nell'esperienza della vita e dell'architettura.


P.G. Bolzano, 26.06.2021


 

L’articolo è estratto dall’intervento dell'architetto Paolo Greppi, alla conferenza sul Razionalismo organizzata da

La fabbrica del tempo – Bolzano, Sala storica, 12 novembre 2014.

 

E’ anche pubblicato in:

Razionalismi Percorsi dell'abitare

Bolzano, La fabbrica del tempo, 2015