Paolo Greppi
Paolo Greppi
Questa non è una lezione.
E’ un dialogo con voi studenti, senza disegni.
Perché progettiamo?
E, che cosa fa l'architettura di noi?
La domanda successiva è: che cosa accende la poesia in noi?
Mi chiederete: perché questa domanda?
Perché credo sia importante ricordare che per imparare l’architettura non siano sufficienti le lezioni della disciplina o l’incontro con gli edifici fondamentali.
Basta ascoltare i poeti, in questa lezione al maschile, come nella precedente al femminile.
Basta imparare a leggere la poesia in modo architettonico.
Gli autori sono:
Jorge Luis Borges 1899-1986
Rainer Maria Rilke 1875-1926
Fernando Pessoa 1888-1935
Albert Camus 1913-1960
Marcel Proust 1871-1922
Paul Valéry 1871-1945
Italo Calvino 1923-1985
Franz Kafka 1883-1924
William Butler Yeats 1865-1939
Primo Levi 1919-1987
E, prima di leggere, guardiamoli negli occhi.
Jorge Luis Borges
“Per cominciare, vorrei premettere, in tutta onestà, che cosa dovete aspettarvi - o, meglio, che cosa non dovete aspettarvi - da me. Mi rendo conto di aver commesso un errore già nel titolo della mia prima lezione. Il titolo è, se non vado errato, «L'enigma della poesia», e ovviamente l'accento cade sulla prima parola: «enigma». Quindi potreste pensare che l'enigma sia davvero l'importante. O, peggio ancora, potreste credere che mi sono illuso di avere in qualche modo scoperto come decifrarlo. La verità è che non ho rivelazioni da fare. Ho passato la vita a leggere, ad analizzare, a scrivere (o a tentar di scrivere) e a gioirne. Ho scoperto che quest'ultimo punto è la cosa più importante. A forza di leggere e rileggere poesia, sono arrivato a una conclusione definitiva sull'argomento. Ogni volta che affronto una pagina bianca, sento di dover riscoprire la letteratura da solo. Il passato non mi è di alcun aiuto. Sicché, come ho già detto, ho solo le mie perplessità da offrirvi. Sono prossimo ai settant'anni, ho dedicato la maggior parte della mia vita alla letteratura e posso offrirvi solo dubbi.”
“Ogni poesia è misteriosa; nessuno sa interamente ciò che gli è stato concesso di scrivere.”
“La musica, gli stati di felicità, la mitologia, i volti scolpiti dal tempo, certi crepuscoli e certi luoghi vogliono dirci qualcosa, o qualcosa dissero che non avremmo dovuto perdere, o stanno per dire qualcosa; quest’imminenza di una rivelazione che non si produce è forse il fatto estetico.”
“La parola [è] stata all’inizio un simbolo magico che l’usura del tempo ha deprezzato. Il poeta [ha] la missione di restituire alla parola, almeno parzialmente, la sua primissima e oggi nascosta virtù.”
«La radice del linguaggio è irrazionale e di carattere magico. […] La poesia vuol tornare a quell’antica magia. Senza leggi prefissate, essa opera in modo esitante e temerario, come se camminasse nell’oscurità. Misterioso gioco di scacchi la poesia, la cui scacchiera e i cui pezzi cambiano come in un sogno e sul quale mi chinerò quando sarò morto.”
Sono i fiumi
Siamo il tempo. Siamo la famosa
parabola di Eraclito l’oscuro.
Siamo l’acqua, non il diamante duro,
che si perde, non quella che riposa.
Siamo il fiume e siamo anche quel greco
che si guarda nel fiume. Il suo riflesso
muta nell’acqua del cangiante specchio,
nel cristallo che muta come il fuoco.
Noi siamo il vano fiume prefissato,
dritto al suo mare. L’ombra l’ha accerchiato.
Tutto ci disse addio, tutto svanisce.
La memoria non conia più monete.
E tuttavia qualcosa c’è che resta
E tuttavia qualcosa c’è che geme.
Rainer Maria Rilke
“Le opere d'arte sono sempre il frutto dell'essere stati in pericolo, dell'essersi spinti, in un'esperienza, fino al limite estremo oltre il quale nessuno può andare.”
“Il futuro entra in noi, per trasformarsi in noi, molto prima che accada.”
“Nasciamo, per così dire, provvisoriamente, da qualche parte; soltanto a poco a poco andiamo componendo in noi il luogo della nostra origine, per nascervi dopo, e ogni giorno più definitivamente.”
Fernando Pessoa
“Nulla si sa, tutto si immagina.”
“La vita è un viaggio sperimentale fatto involontariamente. Ḕ un viaggio dello spirito attraverso la materia, e poiché è lo spirito che viaggia, è in esso che noi viviamo. Ci sono perciò anime contemplative che hanno vissuto più intensamente, più largamente, più tumultuosamente di altre che hanno visuto la vita esterna. Conta il risultato. Ciò che abbiamo sentito è ciò che abbiamo vissuto. Si ritorna stanchi da un sogno come da un lavoro reale. Non si è mai vissuto tanto come quando si è pensato molto.”
“La letteratura, come tutta l'arte, è la confessione che la vita non basta.”
Albert Camus
“L'uomo è la sola creatura che rifiuti di essere ciò che è.”
“La nostra sola giustificazione, se ne abbiamo una, è di parlare in nome di tutti coloro che non possono farlo.”
“Non essere amati è una semplice sfortuna; la vera disgrazia è non amare.”
Marcel Proust
“È sempre in uno stato d'animo non destinato a durare che si prendono risoluzioni definitive.”
“Ognuno chiama «chiare» le idee che sono allo stesso grado di confusione delle sue proprie.”
“Nulla altera le qualità materiali della voce quanto il fatto di contenere il pensiero.”
Paul Valéry
“A volte penso, a volte sono.”
“La vita perde in velocità ciò che guadagna in varietà, in complessità, in conservazione.”
“La maggior parte degli uomini ignora tutto ciò che non ha nome; e la maggior parte crede all'esistenza di tutto ciò che ha un nome.”
Italo Calvino
"La mia fiducia nel futuro della letteratura consiste nel sapere che ci sono cose che solo la letteratura può dare coi suoi mezzi specifici.”
„La letteratura vive solo se si pone degli obbiettivi smisurati, anche al di là d'ogni possibilità di realizzazione.“
"Raramente l'occhio si ferma su una cosa, ed è quando l'ha riconosciuta per il segno di un'altra cosa: un'impronta sulla sabbia indica il passaggio della tigre, un pantano annuncia una vena d'acqua, il fiore dell'ibisco la fine dell’inverno.”
"Mi rendo conto che questa conferenza, fondata sulle connessioni invisibili, si è ramificata in diverse direzioni rischiando la dispersione. Ma tutti i temi che ho trattato questa sera, e forse anche quelli della volta scorsa, possono essere unificati in quanto su di essi regna un dio dell’Olimpo cui io tributo un culto speciale: Hermes-Mercurio, dio della comunicazione e delle mediazioni, sotto il nome di Toth inventore della scrittura, e che, a quanto ci dice C.G. Jung nei suoi studi sulla simbologia alchimistica, come “spirito Mercurio” rappresenta anche il principium individuationis. Mercurio, con le ali ai piedi, leggero e aereo, abile e agile e adattabile e disinvolto, stabilisce le relazioni degli dei tra loro e quelle tra gli dei e gli uomini, tra le leggi universali e i casi individuali, tra le forze della natura e le forme della cultura, tra tutti gli oggetti del mondo e tra tutti i soggetti pensanti. Quale migliore patrono potrei scegliere per la mia proposta di letteratura? Nella sapienza antica in cui microcosmo e macrocosmo si specchiano nelle corrispondenze tra psicologia e astrologia, tra umori, temperamenti, pianeti, costellazioni, lo statuto di Mercurio è il più indefinito e oscillante. Ma secondo l'opinione più diffusa, il temperamento influenzato da Mercurio, portato agli scambi e ai commerci e alla destrezza, si contrappone al temperamento influenzato da Saturno, melanconico, contemplativo, solitario. Dall'antichità si ritiene che il temperamento saturnino sia proprio degli artisti, dei poeti, dei cogitatori, e mi pare che questa caratterizzazione risponda al vero. Certo la letteratura non sarebbe mai esistita se una parte degli esseri umani non fosse stata incline a una forte introversione, a una scontentezza per il mondo com'è, a un dimenticarsi delle ore e dei giorni fissando lo sguardo sull'immobilità delle parole mute. Certo il mio carattere corrisponde alle caratteristiche tradizionali della categoria a cui appartengo: sono sempre stato anch'io un saturnino, qualsiasi maschera diversa abbia cercato d'indossare. Il mio culto di Mercurio corrisponde forse solo a un'aspirazione, a un voler essere: sono un saturnino che sogna di essere mercuriale, e tutto ciò che scrivo risente di queste due spinte. Ma se Saturno - Cronos esercita un suo potere su di me, è pur vero che non è mai stato una divinità di mia devozione; non ho mai nutrito per lui altro sentimento che un rispettoso timore. C'è invece un altro dio che ha con Saturno legami d'affinità e di parentela a cui mi sento molto affezionato, un dio che non gode d'altrettanto prestigio astrologico e quindi psicologico non essendo il titolare d'uno dei sette pianeti del cielo degli antichi, ma che pur gode d'una gran fortuna letteraria fin dai tempi d'Omero: parlo di Vulcano-Efesto, dio che non spazia nei cieli ma si rintana nel fondo dei crateri, chiuso nella sua fucina dove fabbrica instancabilmente oggetti rifiniti in ogni particolare, gioielli e ornamenti per le dee e gli dei, armi, scudi, reti, trappole. Vulcano che contrappone al volo aereo di Mercurio l'andatura discontinua del suo passo claudicante e il battere cadenzato del suo martello. Anche qui devo riferirmi a una lettura occasionale, ma alle volte idee chiarificanti nascono dalla lettura di libri strani e difficilmente classificabili dal punto di vista del rigore accademico. Il libro in questione, che ho letto quando studiavo la simbologia dei tarocchi, si intitola Histoire de notre image, di André Virel (Geneve, 1965). Secondo l'autore, uno studioso dell'immaginario collettivo di scuola - credo - junghiana, Mercurio e Vulcano rappresentano le due funzioni vitali inseparabili e complementari: Mercurio la sintonia, ossia la partecipazione al mondo intorno a noi; Vulcano la focalità, ossia la concentrazione costruttiva. Mercurio e Vulcano sono entrambi figli di Giove, il cui regno è quello della coscienza individualizzata e socializzata, ma per parte di madre Mercurio discende da Urano, il cui regno era quello del tempo «ciclofrenico» della continuità indifferenziata, e Vulcano discende da Saturno, il cui regno era quello del tempo «schizofrenico» dell'isolamento egocentrico. Saturno aveva detronizzato Urano, Giove aveva detronizzato Saturno; alla fine nel regno equilibrato e luminoso di Giove, Mercurio e Vulcano portano ognuno il ricordo d'uno degli oscuri regni primordiali, trasformando ciò che era malattia distruttiva in qualità positiva: sintonia e focalità. Da quando ho letto questa spiegazione della contrapposizione e complementarità tra Mercurio e Vulcano, ho cominciato a capire qualcosa che prima d'allora avevo solo intuito confusamente: qualcosa su di me, su come sono e su come vorrei essere, su come scrivo e come potrei scrivere. La concentrazione e la craftsmanship di Vulcano sono le condizioni necessarie per scrivere le avventure e le metamorfosi di Mercurio. La mobilità e la sveltezza di Mercurio sono le condizioni necessarie perché le fatiche interminabili di Vulcano diventino portatrici di significato, e dalla ganga minerale informe prendano forma gli attributi degli dei, cetre o tridenti, lance o diademi. Il lavoro dello scrittore deve tener conto di tempi diversi: il tempo di Mercurio e il tempo di Vulcano, un messaggio d'immediatezza ottenuto a forza d'aggiustamenti pazienti e meticolosi; un'intuizione istantanea che appena formulata assume la definitività di ciò che non poteva essere altrimenti; ma anche il tempo che scorre senza altro intento che lasciare che i sentimenti e i pensieri si sedimenti no, maturino, si distacchino da ogni impazienza e da ogni contingenza effimera. Ho cominciato questa conferenza raccontando una storia, lasciatemi finire con un'altra storia. È una storia cinese. Tra le molte virtù di Chuang-Tzu c'era l'abilità nel disegno. Il re gli chiese il disegno d'un granchio. Chuang-Tzu disse che aveva bisogno di cinque anni di tempo e d'una villa con dodici servitori. Dopo cinque anni il disegno non era ancora cominciato. 《Ho bisogno di altri cinque anni, disse Chuang-Tzu. Il re glieli accordo. Allo scadere dei dieci anni, Chuang-Tzu prese il pennello e in un istante, con un solo gesto, disegnò un granchio, il più perfetto granchio che si fosse mai visto.”
Franz Kafka
“La giovinezza è felice, perché ha la capacità di vedere la bellezza. Chiunque conservi la capacità di cogliere la bellezza non diventerà mai vecchio.”
“Un libro dev'essere un'ascia per il mare ghiacciato che è dentro di noi.”
“Quando io dico una cosa, essa perde subito e definitivamente la sua importanza; quando la scrivo la perde lo stesso, ma talvolta ne acquista una nuova.”
Thomas Stearns Eliot
“Il genere umano
Non può sopportare troppa realtà.”
“Soltanto coloro che rischiano di andare troppo lontano possono scoprire quanto lontano si possa andare.”
“La vera poesia può comunicare anche prima di essere capita.”
William Butler Yeats
"Se guardi nel buio a lungo, c'è sempre qualcosa."
“L'istruzione non è il riempimento di un secchio, ma l'accensione di un fuoco.”
“Una lingua rappresenta la memoria collettiva «naturale» di una popolazione: se questa, per impossessarsi di un nuovo strumento linguistico, perde il contatto con il suo mezzo d'espressione più antico, diviene del tutto incapace di riconoscersi nelle proprie tradizioni: come potrà, allora, affermare la propria identità?”
Primo Levi
Perché si scrive
Avviene spesso che un lettore, di solito un giovane, chieda a uno scrittore, in tutta semplicità, perché ha scritto un certo libro, o perché lo ha scritto così, o anche, più generalmente, perché scrive e perché gli scrittori scrivono. A questa ultima domanda, che contiene le altre, non è facile rispondere: non sempre uno scrittore è consapevole dei motivi che lo inducono a scrivere, non sempre è spinto da un motivo solo, non sempre gli stessi motivi stanno dietro all’inizio ed alla fine della stessa opera. Mi sembra che si possano configurare almeno nove motivazioni, e proverò a descriverle; ma il lettore, sia egli del mestiere o no, non avrà difficoltà a scovarne delle altre.
Perché, dunque, si scrive?
1) Perché se ne sente l’impulso o il bisogno. È questa, in prima approssimazione, la motivazione più disinteressata. L’autore che scrive perché qualcosa o qualcuno gli detta dentro non opera in vista di un fine; dal suo lavoro gli potranno venire fama o gloria, ma saranno un di più, un beneficio aggiunto, non consapevolmente desiderato: un sottoprodotto, insomma. Beninteso, il caso delineato è estremo, teorico, asintotico: è dubbio che mai sia esistito uno scrittore, o in generale un artista, così puro di cuore. Tali vedevano sé stessi i romantici; non a caso, crediamo di ravvisare questi esempi fra i grandi più lontani nel tempo, di cui sappiamo poco, e che quindi è più facile realizzare. Per lo stesso motivo le montagne lontane ci appaiono tutte dello stesso colore, che spesso si confonde con il colore del cielo.
2) Per divertire o divertirsi. Fortunatamente, le due varianti coincidono quasi sempre: è raro che chi scrive per divertire il suo pubblico non si diverta scrivendo, ed è raro che ci prova piacere nello scrivere non trasmetta al lettore almeno una porzione del suo divertimento. A differenza del caso precedente, esistono dei divertitori puri, spesso non scrittori di professione, alieni da ambizioni letterarie e non, privi di certezze ingombranti e di rigidezze dogmatiche, leggeri e limpidi come bambini, lucidi e savi come chi ha vissuto a lungo e non invano. Il primo nome che mi viene in mente è quello di Lewis Carroll, il timido decano e matematico della vita intemerata, che ha affascinato sei generazioni con le avventure della sua Alice, prima nel paese delle meraviglie e poi dietro lo specchio. La conferma del suo genio affabile si ritrova nel favore che i suoi libri godono, dopo più di un secolo di vita, non solo presso i bambini, a cui egli idealmente li dedicava, ma presso i logici e gli psicoanalisti, che non cessano di trovare nelle sue pagine significati sempre nuovi. È probabile che questo mai interrotto successo dei suoi libri sia dovuto proprio al fatto che essi non contrabbandano nulla: né lezioni di morale né sforzi didascalici.
3) Per insegnare qualcosa a qualcuno. Farlo, e farlo bene, può essere prezioso per il lettore, ma occorre che i patti siano chiari. A meno di rare eccezioni, come il Virgilio delle Georgiche, l’intento didattico corrode la tela narrativa dal di sotto, la degrada e la inquina: il lettore che cerca il racconto deve trovare il racconto, e non una lezione che non desidera. Ma appunto, le eccezioni ci sono, e chi ha sangue di poeta sa trovare ed esprimere poesia anche parlando di stelle, di atomi, dell’allevamento del bestiame e di apicoltura. Non vorrei dare scandalo ricordando qui “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” di Pellegrino Artusi, altro uomo di cuore puro, che non si nasconde la bocca dietro la mano: non posa a letterato, ama con passione l’arte della cucina spregiata dagli ipocriti e dai dispeptici, intende insegnarla, lo dichiara, lo fa con la semplicità e la chiarezza di chi conosce a fondo la sua materia, ed arriva spontaneamente all’arte.
4) Per migliorare il mondo. Come si vede, ci stiamo allontanando sempre più dall’arte che è fine a sé stessa. Sarà opportuno osservare qui che le motivazioni di cui stiamo discutendo hanno ben poca rilevanza ai fini del valore dell’opera a cui possono dare origine; un libro può essere bello, serio, duraturo e gradevole per ragione assai diverse da quello per cui è stato scritto. Si possono scrivere libri ignobili per ragioni nobilissime, ed anche, ma più raramente, libri nobili per ragioni ignobili. Tuttavia, provo personalmente una certa diffidenza per chi “sa” come migliorare il mondo; non sempre, ma spesso, è un individuo talmente innamorato del suo sistema da diventare impermeabile alla critica. C’è da augurarsi che non possegga una volontà troppo forte, altrimenti sarà tentato di migliorare il mondo nei fatti e non solo nelle parole: così ha fatto Hitler dopo aver scritto “Mein Kampf”, ed ho spesso pensato che molti altri utopisti, se avessero avuto energie sufficienti, avrebbero scatenato guerre e stragi.
5) Per far conoscere le proprie idee. Chi scrive per questo motivo rappresenta soltanto una variante più ridotta, e quindi meno pericolosa, del caso precedente. La categoria coincide di fatto con quella dei filosofi, siano essi geniali, mediocri, presuntuosi, amanti del genere umano, dilettanti o matti.
6) Per liberarsi da un’angoscia. Spesso lo scrivere rappresenta un equivalente di una confessione o del divano di Freud. Non ho nulla da obiettare a chi scrive spinto dalla tensione: gli auguro anzi di riuscire a liberarsene così, come è accaduto in me in anni lontani. Gli chiedo però che si sforzi di filtrare la sua angoscia, di non scagliarla così com’è, ruvida e greggia, sulla faccia di chi legge; altrimenti rischia di contagiarla agli altri senza allontanarla da sé.
7) Per diventare famosi. Credo che sono un folle possa accingersi a scrivere unicamente per diventare famoso: ma credo che nessuno scrittore, neppure il più modesto, neppure il meno presuntuoso, neppure l’angelico Carroll sopra ricordato, sia stato immune da questa motivazione. Aver fama, leggere di sé sui giornali, sentire parlare di sé, è dolce, non c’è dubbio; ma poche fra le gioie che la vita può dare costano altrettanta fatica, e poche fatiche hanno risultato così incerto.
8) Per diventare ricchi. Non capisco perché alcuni si sdegnino o si stupiscano quando vengono a sapere che Collodi, Balzac e Dostoevskij scrivevano per guadagnare, o per pagare i debiti di gioco, o per tappare i buchi di imprese commerciali fallimentari. Mi pare giusto che lo scrivere, come qualsiasi altra attività utile, venga ricompensato. Ma credo che scrivere solo per denaro sia pericoloso, perché conduce quasi sempre ad una maniera facile, troppo ossequente al gusto del pubblico più vasto e alla moda del momento.
9) Per abitudine. Ho lasciato ultima questa motivazione, che è la più triste. Non è bello, ma avviene: avviene che lo scrittore esaurisca il suo propellente, la sua carica narrativa, il suo desiderio di dar vita e forma alle immagini che ha concepite; che non abbia più desideri, neppure di gloria e di denaro; e che scriva ugualmente, per inerzia, per abitudine, per “tener viva la firma”. Badi a quello che fa: su quella strada non andrà lontano, finirà fatalmente col copiare sé stesso. È più dignitoso il silenzio, temporaneo o definitivo”.