Nel libro Le città invisibili Italo Calvino afferma: «Le città sono un insieme di tante cose: di memoria, di desideri, dei segni di un linguaggio». I luoghi dell'abitare sono segni di questo linguaggio e vanno conosciuti, decifrati e ri-conosciuti ancora, nelle loro trasformazioni e persistenze. La città invisibile è quella quotidiana, che non si guarda per la fretta, la distrazione, l'indifferenza. E spesso è proprio la città del Novecento che sfugge all'attenzione e sembra essere anonima. Si può imparare a vederla con il filtro della Storia, contestualizzando simboli e messaggi, per costruire una pubblica memoria. Ma si può anche provare a farne esperienza fisica e concreta, emozionale e artistica, con il desiderio della scoperta individuale. Per questo abbiamo scelto nel titolo due sostantivi declinati al plurale: razionalismi, perché troppo spesso si semplifica e si banalizza la varietà delle proposte di un movimento che ha lasciato eredità importanti; e percorsi per sottolineare le molteplici modalità di possibili interpretazioni. La ricerca parte da una prospettiva inconsueta e cioè mette a fuoco l’edilizia minore, quella abitativa, quindi non monumentale. Si sceglie di approfondire il tema del moderno tramite le normali case d’abitazione, ma di particolare interesse estetico, con attenzione ai progettisti e alla tipologia delle opere. È un settore che è rimasto un po' in ombra e non ha avuto tutta l'attenzione che meritava. E che apre un'altra problematica importante, quella della tutela e della conservazione del patrimonio architettonico del Novecento, per cui non esiste sempre la necessaria attenzione. Abbiamo lavorato molto con le immagini, con il disegno e con la fotografia che poi sono serviti a costruire la mostra. Il linguaggio visivo reinterpreta i luoghi e amplifica le suggestioni. Le fotografie storiche richiamano un vissuto cittadino che si carica di interesse proprio nel confronto con il presente. Sono veri e propri documenti e raccontano la costruzione concreta della città, il lavoro dei cantieri e la trasformazione delle strade. In qualche caso, invece, le fotografie recuperano la visibilità di edifici che oggi facilmente si perdono e si confondono nell'arredo urbano, fra i cassonetti, gli accessi piramidali ai parcheggi interrati, le auto e le biciclette in sosta. «Credo davvero che ci siano cose che nessuno riesce a vedere prima che vengano fotografate» diceva Diane Arbus e aveva ragione.
Edificare senza aggettivi, scrivere a pareti lisce (Massimo Bontempelli, 1933).
Durante gli anni Trenta il regime promuove numerose iniziative di carattere architettonico e urbanistico a Bolzano: viene ripensato l’assetto generale della città e vengono disegnati interi quartieri residenziali. In quegli stessi anni in Europa la tendenza più diffusa è il “ritorno all’ordine”, il bisogno di chiarezza razionale. L’arte sceglie forme oggettive e riconoscibili. L’architettura, favorita dai numerosi progressi nelle tecniche costruttive, predilige la semplificazione funzionale con l’utilizzo di volumi semplici, l’abolizione di ogni decorazione e l’individuazione di elementi standardizzati. Gropius, Le Corbusier e Mies van der Rohe riducono alla sintesi estrema le forme architettoniche, un’essenzialità formale che si traduce in eleganza. Il motto più calzante dell’architettura razionalista diventerà la frase pronunciata da Mies van der Rohe «Less is more» (il meno è più). Diversa è la storia del razionalismo in Italia. Il razionalismo italiano, subito compromesso da un'apertura alle esigenze del potere politico, ha vissuto la sua stagione più interessante nell'attività del Gruppo 7 e del MIAR. Con il consolidarsi del regime si allontanerà dal rigore funzionalista per una grandezza monumentale, classicista e scenografica. La Bolzano austroungarica, che prima della guerra aveva espresso un eclettismo di gusto neogotico e neoclassico, in pochi anni verrà affiancata da una massiccia espansione urbana. Con le nuove costruzioni la città sarà fortemente condizionata dal classicismo monumentale di Piacentini, anche se frequenti saranno le suggestioni di forme più moderne: architetti sia italiani sia tedeschi si faranno spesso interpreti delle tendenze innovative europee, soprattutto nell’edilizia privata, più indipendente e interessata al funzionalismo di Le Corbusier. Echi di un razionalismo all’avanguardia confermano ancora una volta il ruolo di Bolzano, testimone di continue contaminazioni culturali che si confrontano e si misurano anche con il complesso panorama europeo.
La Fabbrica del Tempo ha voluto focalizzare la propria attenzione su ciò che oggi rimane di questo patrimonio storico e artistico, attuando ricerche d’archivio e sul campo, raccogliendo fotografie progetti e documenti, poiché innanzitutto la percezione di queste architetture è visiva. Una parte di questi edifici rimane solamente nel ricordo e nelle immagini, molti altri sopravvivono, seppur inseriti in un contesto ormai radicalmente mutato o mutati essi stessi, adeguati nel tempo ad altre, nuove esigenze che pongono il problema della loro conservazione, restauro e valorizzazione. Sarebbe un errore credere che il razionalismo negli edifici abitativi fosse appannaggio di pochi architetti “italiani”, come Armando Ronca, Francesco Rossi, Guido Pelizzari, poiché nel periodo preso in considerazione sono nate opere che portano la firma, tra gli altri, di Clemens Holzmeister, Luis Trenker, Willy Weyhenmeyer, Marius Amonn, August Fingerle, Erich Pattis, Luis Plattner, Franz Baumann, come dire il fior fiore dell’architettura altoatesina di quegli anni. L’insieme di edifici nati soprattutto negli anni Trenta a Bolzano rientra in verità nell’ambito di un patrimonio né italiano né tirolese, ma come detto più ampiamente europeo e internazionale (pensiamo ai precedenti della Vienna rossa con il Karl-Marx-Hof, il Weißenhof a Stoccarda, vari quartieri vicini al neoplasticismo ad Amsterdam, e ancora a Londra, Porto, le opere di Melnikov, Golosov, il costruttivismo russo...).
Il volume presenta il saggio:
Mi è sempre parso insufficiente e quasi fuorviante il termine "razionale" o "razionalista" per definire l'architettura di quell'epoca che poi si è evoluta mantenendo parte dei suoi contenuti, fino ad oggi, trasmettendo emozioni intense e non facilmente razionalizzabili. Quindi mi piacerebbe parlare anche di quanto di "irrazionale" si trovasse, ed oggi continua a trovarsi in quel modo di fare architettura. L'architettura, per estensione e presenza fisica sulla terra, è il linguaggio umano più diffuso, al quale nessuno si può sottrarre. Viene però pensata, osservata e vissuta troppo spesso, sia dall'interno che dall'esterno della disciplina, esclusivamente attraverso la logica. Al contrario, per consentirne una visione più sentita ed emotiva e per non smarrirne quindi gli aspetti di maggior profondità, le forze segrete che la animano mi pare più appropriato avvicinarvisi attraverso le parole dei poeti e dei filosofi. Essi ci aiuteranno ad abbandonare il predominio della razionalità.
Paul Valéry, nel 1921, nel dialogo in forma platonica Eupalino, o dell'architettura, fa esprimere a Socrate un concetto che ci conduce senza esitazione al cuore della questione:
Socrate: “O Fedro, non puoi non aver notato nei discorsi più importanti [che] gli argomenti più gravi e le dimostrazioni meglio condotte sortivano ben scarso effetto senza il soccorso di particolari all'apparenza insignificanti. Questi legami sono sulla soglia dello spirito e gli ripetono ciò che ad essi piace e glielo ridicono sino a fargli credere d'udire la propria voce. La sostanza d'un discorso è tutta, insomma, nel canto e nel colore d'una voce, che a torto consideriamo come particolari ed accidentali.”
Il "canto e il colore d'una voce" che quasi cinquant'anni prima, nel 1873, Nietzsche, in “Su verità e menzogna in senso extramorale”, definiva così: “Ciò che nel linguaggio meglio si comprende non è la parola, bensì il tono, l'intensità, la modulazione, il ritmo con cui una serie di parole vengono pronunciate - insomma la musica che sta dietro alle parole, la passione dietro questa musica, la personalità dietro a questa passione: quindi tutto quanto non può essere scritto.”
Nell’eco dei testi citati ci apprestiamo ora a vivere un luogo, esso stesso solo inadeguatamente descrivibile nello spazio limitato della pagino bianca, anche se con l'ausilio di immagini. La Piscina delle maree si trova a Leça da Palmeira, nei pressi di Oporto ed è stata realizzata su progetto di Álvaro Siza tra il 1959 ed il 1973. L'architetto iniziò il progetto all’età di ventisei anni. Eleggiamo questa deposizione di elementi (definirla "edificio" sarebbe impreciso), a simbolo e momento decisivo dell'arte del costruire del secolo scorso, poiché, come un punto fermo, raccoglie in sé i principi dell'architettura degli anni Trenta e anticipa quelli a noi contemporanei. Il programma è semplice e geniale al contempo: predisporre un sito, sulla costa atlantica, per accogliere vasche colme d'acqua oceanica che, in virtù della loro misurata profondità, permettano al liquido di riscaldarsi naturalmente con calore del sole e consentano di fare il bagno, cosa altrimenti quasi impossibile nell'oceano, date le temperature non confortevoli.
La sinuosità aspra di un sito sfuggente e quasi impossibile da tenere sotto controllo viene "ascoltata" e, con pochi segni, predisposta alla vita che è destinata ad accogliere.
Ci troviamo di fronte a una serie di piani verticali, orizzontali e leggermente obliqui che risolvono la differenza di quota tra la strada e gli scogli di granito sull'oceano, più in basso. Sentiamo la linea dell'orizzonte, guidati dai piani di copertura in lastre di rame inverdito dalla salsedine; piani lievemente inclinati, quasi fossero sensibili alle carezze del vento. Scendiamo attraverso una rampa. La vista dell'oceano ci
abbandona e, pian piano, anche la luce atlantica diminuisce. Il cemento bianco-liscio del pavimento lascia il posto al legno venato dipinto di nero delle ante degli spogliatoi.
Giriamo a sinistra. Entriamo. Il cielo scompare. Lo spazio si comprime, diviene ctonio e silenzioso. Cambiamo gli abiti. Usciamo dagli spogliatoi, verso l'oceano. La luce incide nuovamente le superfici. Chirurgica. Il calcestruzzo dei muri che delimita no lo spazio di soglia nel quale ci troviamo è del medesimo colore del granito degli scogli. Ma di fronte a noi troviamo un muro, dietro al quale immaginiamo, e cominciamo a udire, l'oceano. Svoltiamo nuovamente a sinistra. Camminiamo fra due muri. Poi sulla destra, un varco. Si apre la vista sulle vasche, gli scogli, l'oceano. Si sente la salsedine.
La pavimentazione non è più bianco-liscio, ma in cemento più scabro, colore della sabbia. In breve, i nostri piedi appoggiano sul granito. I piani in cemento scompaiono per riapparire solo a tratti, solo se necessari, tra la sabbia e gli scogli. A volte si trasformano in scale. Sulla destra, un muro, ancora del colore della sabbia e del granito, in diagonale, si dirige verso l'oceano, mentre cinge e protegge dai venti uno spazio pavimentato dove potersi sedere. I due bacini di fronte all'infinito che ha dato forma ad un sentimento, legato principalmente a questo paese: la saudade, sono quasi completamente contenuti dagli scogli esistenti; solo pochi brani di muratura ne completano la forma. Qui siamo ormai quasi solo nella natura. Ci voltiamo per guardare alle nostre spalle e vedere l'unica facciata architettonica del complesso che è possibile leggere da una certa distanza. Lunghissima e bassa, sfilata, distesa tra la sabbia ed il granito e quasi intenta a dissimulare la memoria, scritta in sé stessa, delle opere dei maestri del Movimento Moderno: Ludwig Mies van der Rohe, Alvar Aalto e Frank Lloyd Wright. Che, anche noi, dimentichiamo presto, perché in realtà qui avviene qualcosa di molto diverso: la scarnificazione lessicale è tale che ci conduce veramente ad un'assenza dell'idioma, al linguaggio naturale, alla rivelazione sensoriale degli archetipi spaziali. Qui l'architettura riesce ad essere, ma anche a non essere. È come se trovasse nello spazio libero tra il granito, la sabbia, l'acqua ed il cielo, gli spazi di minima resistenza in cui riuscire a scaturire.
Per trasmettere le emozioni che il luogo ha suscitato in noi serve però il mestiere, la logica che guida la Mano dell'architetto nel disegno, che lo fa parlare per ordini e numeri, come Valéry eloquentemente ci rivela nel seguente brano, sempre tratto da Eupalino, o Dell'architettura:
“Fedro: […] Ma ben povera cosa erano gli scrupoli prescritti perché l'edifizio durasse, a paragone di quelli usati per elaborare le emozioni e le vibrazioni d'anima del futuro contemplatore dell'opera sua. Preparava alla luce uno strumento incomparabile che, nello spazio ove si muovono i mortali, la spandesse in forme intellegibili, con proprietà quasi musicali; e conosceva, o Socrate, come gli oratori ed i poeti cui pensavi poco fa, la virtù misteriosa delle modulazioni impercettibili. Innanzi ad una massa di cosi morbida leggerezza e di sì semplice apparenza, nessuno s'accorgeva d'essere condotto ad una specie di felicità per curve insensibili, per infime e sovraumane inflessioni, per le profonde combinazioni del regolare e dell'irregolare da lui stesso introdotte, nascoste e rese tanto superbe da non potersi definire. In virtù di esse, lo spettatore, mobile e docile alla loro presenza invisibile, passava di visione in visione, da silenzi vasti al sussurro del piacere come procedeva, indietreggiava, si accostava di nuovo, errando tutt'intorno all'opera, da questa mosso e in balia dell'ammirazione. Bisogna diceva l'uomo di Mègara, che il mio tempio muova gli uomini come li muove l'oggetto amato.”
Si potrebbe forse concludere, senza peraltro voler essere definitivi, questo esame sulla razionalità e il suo opposto in architettura con la seguente riflessione: l'irrazionale, il confuso, che forse non appartiene nemmeno all'architetto, ma a forze archetipiche da tempo immemore scritte nell'inconscio e di cui l'architetto si fa umile interprete, sale alla ragione nel momento del progetto, per poi restarvi nella prima percezione di chi abita e subito tornare irrazionale nell'esperienza della vita e dell'architettura.
P.G. Bolzano, Novembre 2015
L’articolo è estratto dall’intervento dell'architetto Paolo Greppi, alla conferenza sul Razionalismo organizzata da
La fabbrica del tempo – Bolzano, Sala storica, 12 novembre 2014.