SE GLI ARCHITETTI AMANO LA REALTÀ, LA REALTÀ AMA GLI ARCHITETTI
Prime opere costruite di Paolo Greppi e Pierluigi Bianchetti
Prime opere costruite di Paolo Greppi e Pierluigi Bianchetti
Negli ultimi decenni le Facoltà di Architettura italiane hanno licenziato, per lo più, giovani autori d’architettura pronti a firmare parti di città e grandi edifici. Negli stessi anni la legislazione italiana ha sostanzialmente reso impossibile, a un giovane autore di architettura, l’ottenimento di incarichi per la realizzazione di grandi edifici, rifuggendo da un uso efficace dei concorsi per privilegiare sempre più l’affidamento a società di ingegneria, in una logica strettamente quantitativa di risparmio economico e temporale nella elaborazione del progetto. Quanto ai progetti di parti di città, ammesso e non concesso che le città si possano ancora sviluppare per grandi progetti unitari e autoriali, sarebbe difficile indicare occasioni in cui, non tanto un giovane architetto, ma un qualsiasi soggetto che non fosse di natura economica, abbia deciso una parte di città italiana definibile come tale. Progetto e realtà sembrerebbero dunque non andare molto d’accordo nella esperienza dei giovani autori d’architettura italiani. La delusione è toccata anche a Paolo Greppi e Pierluigi Bianchetti, il primo laureatosi, relatori Pierluigi Nicolin e Àlvaro Siza, con il progetto per un area industriale dimessa di Brescia, riqualificata mediante l’inserimento di abitazioni, servizi e un Istituto Universitario immersi in un parco, il secondo, relatori Raffaello Cecchi e Vincenza Lima, con una ipotesi di riqualificazione dell’area di Piazza Rovetta e Largo Formentone, ancora a Brescia ma nel centro storico, vuoto urbano irrisolto dagli anni Trenta, per cui vengono immaginate le nobili funzioni sempre prioritarie nel migliore dei mondi possibili che i giovani architetti amano immaginare protetti dalle aule scolastiche: residenze universitarie, sala di lettura, strutture espositive. L’area industriale, dopo un concorso internazionale, sarà occupata, non dal parco immaginato da Greppi ma da attività commerciali, e il vuoto ricomposto da Bianchetti resta, per ora, sostanzialmente vuoto; se si riempirà, difficilmente sarà un architetto a riempirlo con le sue idee. Per molti anni, il triste confronto tra progetto e realtà che un giovane architetto doveva scoprire e subire uscendo dalla scuola italiana, conduceva sostanzialmente a due esiti abbastanza nettamente distinti. Da un lato la scelta di rimanere nel regno felice del progetto d’architettura “alto”, possibilità offerta dal rifugiarsi in una ricerca universitaria per lo più astratta e isolata dai reali processi di produzione, oppure dalla partecipazione al gioco, spesso non meno astratto, dei concorsi di idee. L’alternativa era sprofondare in una professione dominata dalla procedura burocratica, dal rapporto con una cultura amministrativa e produttiva non meno in crisi di quella architettonica, un mestiere vissuto come impedimento per ogni velleità o anche solo curiosità culturale, in una divaricazione tra processi edilizi e cultura architettonica che ha provocato danni drammatici sull’uno e sull’altro fronte. Torniamo ai nostri illusi tesisti del 1993, Greppi e Bianchetti, e, dopo dieci anni, osserviamoli oggi, non certo rifugiati in squisitezze universitarie ma per nulla abbruttiti da una cruda pratica professionale, piuttosto tenacemente alla ricerca della possibilità di costruire architettura di qualità. Se si fosse chiesto, anche solamente qualche anno fa, ai rappresentanti dei due schieramenti che, certo un po’ schematicamente, si descrivevano sopra, quali compromessi fossero disposti ad accettare per un incarico, l’universitario avrebbe forse risposto “nessuno”, almeno in linea di principio, il giovane all’assalto della professione reale avrebbe detto, se non a parole nei fatti, “tutti”. Greppi e Bianchetti rispondono con onestà, nelle parole e nei fatti, “molti”, i compromessi necessari a trasformare una idea architettonica in costruzione, dunque in architettura, ma non certo tutti, perché ogni singola occasione, una volta trascinata faticosamente nel mondo della realtà, diviene nuovamente occasione per perseguire, con incrollabile e quasi maniacale determinazione, la ricerca di qualità architettoniche. Greppi e Bianchetti, dunque, sono una specie nuova per chi si occupa di critica architettonica, una specie, forse e per fortuna, più diffusa di quanto si pensi; osserviamoli, allora, con scientifica curiosità. Certamente conoscono i linguaggi “alti”, ma oggi esserne disinformato, per un giovane architetto, può solo essere una scelta. Anche evitando il trattamento intramuscolare delle riviste, c’è internet, che informa in tempo reale forse non su ciò che accade, certamente su ciò che qualcuno, chiunque, intende comunicare. Soprattutto ci sono molte e utili possibilità di studiare e lavorare all’estero. Greppi lo ha fatto, utilizzando il mai abbastanza lodato programma Erasmus; un anno in Portogallo, accanto a Siza, che nelle architetture dei due architetti bresciani si vede, forse ancora un po’ troppo. Ma non è solo la lezione del linguaggio che sembrano assumere dalla, o riconoscere nella, scuola portoghese, la vera affinità è nella accettazione della circostanza come materia prima della architettura. Se le più riconoscibili affinità linguistiche con i maestri, nelle opere di Greppi e Bianchetti, sembrano poter volare via alla prima occasione, un dato appare, invece, solidamente al centro della loro ricerca: l’amore per la realtà materiale e il desiderio di trasformarla interrogandosi attentamente sulle cause e le finalità della trasformazione di cui sono attori. Il fare come natura profonda e senso ultimo della architettura. La realtà, a tale aperta dichiarazione d’amore, risponde con doni già ben visibili in una ricerca ancora in forte evoluzione; proviamo a elencarne alcuni. Innanzi tutto la capacità di costruire spazi, dote assai diversa dalla capacità di disporre forme nello spazio; questa sì, una profonda lezione siziana, scritta soprattutto nelle sue prime opere. Nel cimitero di Borgosatollo (1998-2001), la diversa qualità attribuita con semplici mezzi alle “stanze” intorno a cui si raccolgono i loculi, al camminamento coperto che le collega e allo spazio centrale scoperto, dimostra tale attitudine, di per sé significativa, ma ancor più apprezzabile in quanto guidata da considerazioni relative al confort dei visitatori - una corretta aerazione, ombreggiatura e illuminazione -, e al rispetto della loro esperienza in tale luogo - la dimensione quasi domestica delle “stanze”. La stessa accurata differenziazione degli spazi, accanto a un legittimo rigurgito di antiche illusioni se si confronta l’impianto generale con il progetto di Greppi tesista – torna nell’ampliamento del cimitero di Palazzolo (1997-2002), con un importante valore aggiunto: la capacità di dialogare con le notevoli qualità del cimitero preesistente, fuori da ogni disquisizione tipologica, ma con una facoltà, estremamente “naturale” per usare ancora una terminologia siziana, di accordare il progetto con la realtà esistente e con alcuni suoi caratteri. L’intelligente realismo e la sensibilità nel rapporto con i caratteri fisici e le qualità di vita del luogo, supera anche la prova del confronto diretto e intimo con un monumento. Il recupero della Torre del Popolo (1998-2002), di nuovo a Palazzolo, edificio straordinario per proporzioni e rapporto con l’intorno, nonché per le suggestioni spaziali interne, avrebbe potuto generare i più diversi “temi” d’architettura mentre, con estrema semplicità in condizioni fisiche non certo semplici, i progettisti fanno esclusivamente ciò che è necessario per prendersi cura dell’edificio, consolidarlo, evitare le lesioni dovute al peso dell’apparato campanario e consentirne una visita sicura. Niente di superfluo e ricercato, la ricostruzione à l’identique accostata a piccole invenzioni necessarie, in un tranquillo alternarsi di progetto e restauro certo abituale nel prediletto Portogallo, in Italia spesso reso impossibile da molte elucubrazioni sul rapporto tra progetto e restauro. Infine il dettaglio. E’ un piacere osservare i nostri disillusi tesisti impegnati a consolarsi della - per ora - negata scala urbana con una accurata progettazione in scala 1:2. Tra le maglie allargate della paura post-tangentopoli scivola qualche incarico di architetture cimiteriali a giovani e sconosciuti professionisti; l’occasione va sfruttata e attraversata completamente, e il sistema di fissaggio delle lapidi, che a ben vedere non è tema da poco in un cimitero, viene accuratamente studiato, con risultati assai più convincenti di alcune ricercatezze di dettaglio, a volte un po’ formalistiche, altre volte molto felici ma non così necessarie, come nel caso delle porte di ingresso delle tombe di famiglia di Nave. In architettura non esistono temi grandi e temi piccoli, ogni problema posto dal progetto ha la stessa dignità, a prescindere dalla scala; di nuovo una lezione condivisa con i portoghesi, Távora e Souto Moura più ancora che Siza, forse. Inoltre, stessa sensibilità, la costante ricerca nell’impiego e attualizzazione dei materiali locali tradizionali. Superata in maniera convincente la prova non facile della residenza (S. Zeno 2001-2003) in un piano particolareggiato che assoggetta, come oggi accade, l’architettura a regole urbane raramente in grado di diventare realmente regole e realmente urbane, il più ricco dono che l’amata realtà sembra, al momento, aver concesso a Greppi e Bianchetti, è il complesso per anziani di Collebeato (1998-2002), in cui aleggerà certo anche l’evocato spirito di Aalto, ma assai più importante appare la scelta di far decidere l’edificio alle circostanze e alla volontà di servire, nel modo più opportuno, le necessità di vita degli abitanti.
Giovanni Leoni, febbraio 2004
In:
Greppi & Bianchetti
Discorsi dai luoghi (Progetti 1993-2003)
Schio, Idea Architecture Books, 2003
Monografia 1993-2003